corna di gazzellaE’ vero, la località dove vivo adesso ha, più o meno, la densità abitativa del deserto del Sonora. Tuttavia – senza svalutare la Lomellina – il deserto vero, fatto di sabbia, dune, sole (tanto) e scarabei ha decisamente un altro sapore. E dato che di sapori stiamo a parlà, il post di oggi tratterà di una ricetta  realizzata apposta per il contest della ciliegina.

Ma vediamo la sua reale genesi. Ora, è da parecchi anni  che  il miei gusti in fatto di tè si sono tramutati o forse semplicemente evoluti. Se da ragazzina venivo presa per i fondelli dai miei compagni di classe perchè il mio atteggiamento un pò distaccato (era solo sonno…) li induceva a pensare che alle cinque prendessi il tè con la regina – e alle cique il tè (Earl Grey) senza regina io comunque lo prendevo – ora, e prevalentemente dalla primavera inoltrata in avanti, il tè lo piglio in giardino, su un tappeto finto orientale (ndr. Grandfoulard Bassetti), col mio bimbo e qualche mamma che porta il suo. Se dunque  le modalità di degustazione  le ho descritte (che, per inciso, subiscono ovviamente una stagionalità) è necessario fare un passo indietro per comprenderre appieno perchè la sottoscritta subisce il quasi quotidiano supplizio dell’erosione della sinovia per sedersi in posa mediorientale a prendere il tè.

La scrivente ha già una certa età. Ma si dà il caso che quando questa certa età era a di là da venire io – lasciato il tè alla regina – prendevo il mio zaino e partivo per un’esotica destinazione nel modo più disagiato possibile cosicchè, al ritorno, si avesse qualcosa di più originale da raccontare e perchè fino ad una certa età fa davvero grangrangran figo dormire su giacigli di pietra e rischiare di prendere il tifo per mangiare  in modo autentico.

Ma di quei viaggi conservo un ricordo indelebile e glorioso. A parte il viaggio in India, che ha uno svolgimento a dir poco epico (ma ve lo racconterò un’altra volta dal momento che un post non basterebbe),  è il viaggio in Marocco quello che mi ha entusiasmato di più. Oltre alle bellissime città imperiali, il clima fantastico (sui 45° secchi), i mercati deliziosi e una cucina sublime, è sicuramente il deserto il luogo di cui conservo il ricordo più vivo.

Nato con l’intenzione di una gita in giornata in compagnia di altri gracchianti gitanti, quella che doveva essere una breve escursione nel deserto si è tramutata in un trekking di tre giorni deciso lì-per-lì dopo aver abbordato, alla fermata dell’autobus di Erfoud, due milanesi in vacanza vestiti da tuareg. Lontani dalla città e travestiti da qualcos’altro anche i milanesi sembrano simpatici!

D’accordo su tutto – che poi era un niente dato che ci buttavamo in una perfetta incognita – partiamo per non si sa bene dove. Ci fermiamo col gruppone in località Merzouga, ma lo molliamo presto per metterci in cerca di una guida: un cammelliere. Ci viene fornito un ragazzo berbero di 18 anni magro come un chiodo e molto bello che conosce solo il francese. Ci spieghiamo a gesti e a mugugni un pò primitivi, poi scopriamo che il tuareg milanese conosce il francese, più un’altra manciata di lingue, porta con sè pasticche contro l’ameba e ha un cellulare che prende anche in mezzo al deserto. Mi sento più tranquilla. Ancor di più quando scopro che è ingegnere. Sotto il costume di carnevale deve essere un tipo quadrato…penso! Il cammelliere, dal basso dei suoi innocenti 18 anni, ci lascia la più completa autonomia, forse perchè dal suo punto di vista le nostre domande erano proprio da turista per caso:

  • Quanta acqua portiamo? – Quanta ne volete.
  • Che temepratura c’è di giorno (lo so, la domanda è abbastanza idiota, ma che volte)?- Tanta!
  • Dobbiamo portare anche i sacchi a pelo…so che nel deserto di notte fa freddo? – Ahahahah!
  • Come ci si deve vestire? – Come volete…
  • Quanto cambio dobbiamo portare…. si suderà molto?Sguardo attonito

Arriva in soccorso la Lonely Planet con qualche consigliuccio sbiadito. Carichiamo il cammello destinato a porta-bagagli con gli zaini e 4 casse d’acqua, indi partiamo.

Sabbia e calore, calore  e sabbia per svariati km. Circumnavighiamo la zona a sud est del deserto del Sahara, quella al confine con l’Algeria. In fondo vediamo posti di blocco militari. Il cammelliere ci fa stare cautamente alla larga. Io, con uno scamiciato in lino sabbia e il cappello avana (del resto la classe non è mica acqua ;), mi sentivo molto Debra Winger e cercavo un contegno davvero penoso da mantenere.

deserto sahara

Le dune sembrano seta liquida, mutano in continuazione sotto il soffio incessante di un vento caldissimo. E ti accorgi come sia questo il vero problema dell’orientamento: il paesaggio non lo lasci mai come lo trovi.

La giornata si snocciola grosso modo così: alzata verso le 5, caminata fin verso le 9 poi bisogna cercare un posto dove ripararasi se no schiatti. I 70° al sole ci sono e si sentono tutti!

Dopo il primo giorno qualcuno inizia a dare pesanti segni di squilibrio: c’è chi si incastona una fetta di limone sotto la gengiva – e sorride pure! – o chi delira rotolando giù dalle dune invocando meloni e frutta ad elevato titolo idrosalino. Io mi pietrifico sul cammello: non parlo, non dormo, non mangio. Però beviamo tutti in abbondanza e alla fine della prima giornata (nessuna esagerazione, signori, credetemi) l’acqua è finita! Cioè, lo so che è terribilmente da luogo comune…vai nel deserto e che succede? Finisce l’acqua. Ma è così. Non vi nascono un primo momento di sbandamento e crisi isteriche collettive.

Ma il cammeliere non si scompone, non molte sudate dopo troviamo un’oasi dove due eleganti tuareg bluvestiti (veri questa volta) ci accolgono con un sorriso. Non potevano essere più contenti. Loro. Vicino alla tenda intravedo un tavolino e sopra alcune bottiglie di San Pellegrino. Voglio dire, mica un’acqua qualunque. Sorridiamo anche noi come dei beoti. Cavoli! penso…adesso ci offriranno da bere …evviva!

Si, certo, l’acqua ce l’hanno pure offerta, ma alla modica cifra di 15000 lire al litro. Che volete, ora ci ripenso perplessa, ma all’epoca avrebbero potuto chiedermene pure il triplo che non avrei battuto ciglio.

Rimaniamo qualche ora in un’oasi che sembra quella dello zoo Safari di mio figlio: bellissima da sembrare finta, le foglie verdi come solo Photoshop sarebbe in grado di creare e una sabbia senza segni di contaminazione umana (sigarette, tappi di bottiglia, sacchetti di plastica…), un laghetto perfettamente incastonato e tanta, tanta ombra. E poi arriva – questa volta gratis – lui, il tè, e nel deserto, il tè – ve lo posso assicurare  – non è nè una fisima nè un’esperienza da propinare al turista alla ricerca di emozioni autentiche. E’ che il tè, nel deserto, è l’unica bevanda bevibile e disponibile sempre in buona quantità e questo per tutta una serie di ragionevolissimi motivi:

nel deserto non trovi l’acqua corrente che sgorga dai rubinetti, ma la trovi nei pozzi (per inciso: il deserto è pieno d’acqua, basta sapere dov’è);

 

– l’acqua prelevata da suddetti pozzi, con secchi a disposizione di chi passa, esce di un colorino color ecrù (se andate a fare un giro da queste parti non guardate troppo quello che avete nel bicchiere ma mandate giù e sperate in Dio);

 

– visto il colore e la”densità” tutta particolare di quest’acqua è consigliabile bollirla prima di berla;

 

– l’acqua calda fa veramente schifo, per cui è meglio bere un tè, anche se il tè ha la stessa temperatura dell’ambiente che vi circonda e apparentemente non disseta. Ma lo sanno anche i datteri che in una situazione così estrema il punto cruciale è reidratarsi non dissetarsi.

Poste queste condizioni passo alla fase decisamente più amena. Prendere il tè nel deserto è un’esperienza di grande suggestione. Se avete la fortuna di lasciarvi alle spalle i tour organizzati e con un pò di coraggio intraprendere questo viaggio con una guida del posto, questo è probabile che si porterà dietro una caraffa a basso titolo d’argento con ghirigori arabescati e dei deliziosi bicchierini  rifiniti in oro. Poi, da qualche parte, farà spuntare fuori del tè e della menta fresca (e questo è il vero mistero).

Stenderà un kilim berbero – lo stesso che faceva da sella al cammello – e verso l’imbrunire si appresterà a celebrare il rito del tè. Farà bollire l’acqua ecrù per qualche minuto, poi aggiungerà qualche cucciaino di tè nero insieme a parecchio zucchero e, una volta filtrato, rametti interi di menta fresca che pigerà un pò sul fondo. Si berrà, quindi, il tè in religioso silenzio (se conoscete il francese potrebbe esserci un pò di chiacchiericcio in più, ma in questa occasione vi invito a far finta di conoscere solo il vostro dialetto regionale) e mentre il sole pare aver finalmente deciso di andarsi a riposare, si sta a contemplare questo paesaggio lunare e insieme la cosa più bella che abbia mai visto: un mare di sabbia color oro, uniforme e di velluto, che sembra fondersi sotto la temperatura cocente.

E in tutto ciò il tè alla menta è la bevanda più azzeccata che si potrebbe concepire in un luogo del genere: una cosa talmente rinfrescante che nemmeno un bicchiere di Coca ghiacciata potrebbe reggere il confronto. Il tè caldo – come si potrebbe pensare un tè in gelide giornate scozzesi –  nel deserto è sempre più fresco della temperatura esterna, quindi ciò che si percepisce è una bevanda tiepida e deliziosa. L’amaro del tè incontra l’aroma pungente e aperto della menta che sprigiona il suo potere nei secondi immediatamente successivi alla deglutizione. L’esofago viene inondato da un’improvvisa ventata di freschezza che persiste per qualche minuto e, finalmente, l’arsura pare placata.

Il tè alla menta, oggi, lo ripropongo spesso e giusto perchè qui la vita è sicuramente più confortevole di quella che consuma nel deserto, lo accompagno con dei dolcetti appropriati che adoro. Adoro perchè le corna di gazzella – dolce tipico di quelle latitudini, discreto e profumato che sbocconcellai la prima volta in un suk  – unisce alcuni degli ingredienti che preferisco: frutta secca, miele e cannella. Un bocconcino secco ma dal cuore morbido e al tempo stesso croccante e i cui aromi si accompagnano perfettamente a questa singolare bevanda.

RICETTA

“Tè verde alla menta con corna di gazzella”

Ingredienti

Per il tè

  • Tè verde,
  • Menta fresca, un mazzetto abbondante,
  • Zucchero semolato, 150 gr
  • Acqua, 1 litro

Per i pasticcini “Corna di gazzella”

  • Farina 00, 300 gr
  • Burro, 120 gr
  • Acqua di fiori di arancio 3 cucchiai + qualche cucchiaio per il ripieno
  • Mandorle tritate, 400 gr
  • Zucchero a velo, q.b
  • Zucchero semolato, 80 gr
  • Miele, 1 ½ cucchiaio
  • Cannella, 2 cucchiaini+ mezzo per la pasta
  • Sale
  • Acqua e zucchero per lo sciroppo

Realizzate il ripieno unendo alle mandorle sbriciolate lo zucchero semolato, il miele, la cannella, un pizzico di sale e l’acqua di fiori d’arancio, poca alla volta in modo da non creare un impasto troppo molle. Realizzate dei rotolini lunghi 3/4 cm. Lasciate riposare.

Fate ammorbidire il burro (deve essere molto morbido) unitelo alla farina, alla cannella e aggiungete l’acqua di fiori di arancio. Impastate fino a formare una palla liscia e omogenea. Mettete in frigorifero per 30 minuti.

Stendete la pasta molto finemente. Il trucco sta tutto nel realizzare una pasta finissima dello spessore di 2 millimetri circa (si deve vedere la mano sotto la pasta) e poi con un tagliapasta realizzate dei cerchi di 7 cm. Mettete al centro il rotolino di mandorle e poi chiudete come fosse un panzerotto.

Se la pasta dovesse risultare molto asciutta e non si dovesse chiudere bene, usate del burro morbidissimo. Eliminate l’eccedenza di pasta e piegate leggermente al centro i biscotti in modo da creare una mezzaluna. Infornate a 170° per 10/15 minuti. I biscotti non devono prendere troppo colore ma solo asciugarsi.

Far raffreddare senza toccare i biscotti.

Preparate uno sciroppo con acqua e zucchero non troppo denso. Intingere i biscotti uno a uno velocemente, farli scolare su una gratella e poi cospargerli di zucchero a velo. (questo passaggio è facoltativo).


 

tè

Con questa ricetta partecipo al contest de La ciliegina sulla torta E’ sempre l’ora del tè